LE MIE PAROLE - IL MIO ARTICOLO

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Devo farmi le cannepubblicato su: IN OUT - La lista della spesa | giugno 2007
Devo fare le canne. Non devo proprio scordarmi di fare le canne. Sennò si affloscia, non riesce ad alzarsi bene. Se la infili a tempo giusto e lei trova la giusta temperatura e umidità, allora vedrai come comincia a venire su che è uno spettacolo. La piantina di pomodoro in questo periodo è rigogliosa e trabocca di piccoli fiori. Cresce tantissimo, ma ha il fusto molto debole e non riesce a stare in piedi da sola. Ha bisogno di un tutore, di un sostegno. Altrimenti produrrà i pomodori a terra; e metà marciranno quasi subito. Se accanto ad ogni piantina ci infili una canna, ben piantata nel terreno, poi le disponi a tipo tenda indiana, ne leghi quattro insieme, puoi assicurare le piantine all’asta della canna e quindi reggere ottimamente il peso dei pomodori. Vado nella campagna di Melo, il mio amico pastore, a farmi le canne. Scelgo le più dritte, le più resistenti. Vanno tagliate a misura, pulite, sfrondate, caricate, piantate e legate. Poi, dopo che ha legato tutte le piantine, metti della polvere di zolfo dentro una calzetta di nylon e la muovi tipo chierichetto che sparge l’incenso in chiesa. Lo zolfo protegge i pomodori dalle malattie tipo peronospora. “Ccu tuttu ssu traficu – pensavo l’altra mattina, affranto e sudato, con lo zolfo che mi era entrato fin dentro il buco del…naso e con lo sguardo da centro di accoglienza di Lampedusa – se me li accattavo al mercato mi custavunu chiù picca assai!”. Mi sono fermato per un attimo. Mi sono seduto all’ombra e ho cominciato a farmi prendere a pugni nella pancia da tutte le solite domande “Ma io chi sono – da dove vengo - ma che ci faccio io qui? - con le canne?- ma che me frega a me dei pomodori biologici?- Ma non starei meglio nel mio appartamento al fresco condizionato, con la mia chitarra fra le mani, o al bar a sfogliare il corriere dello sport, davanti a una granita?” Sono qui, seduto su una pietra, accaldatissimo, con le mani che bruciano, nere e gonfie di dolore. Non voglio nemmeno pensare che queste stesse mani fra qualche giorno arpeggeranno sopra le corde di una chitarra, davanti a un migliaio di persone. In questi momenti ti scorre la vita davanti come un film. Rivedo qualche flash, la mia infanzia, i miei amici. Leo, Leo, chissà dov’è finito Leo?
Leo nella nostra comitiva di carusi era il più grande d’età. Ma non sembrava affatto. Aveva modi gentili e tratti raffinati, per noi zzaurdi di paese era come un affronto. Mingherlino, capelli lunghi e biondi, sempre pulito, pettinato, profumato, sembrava sempre il più ragazzino di tutti noi. Quando cominciò ad andare con gli uomini eravamo già grandi e maliziosi. Qualcuno di noi l’aveva pure intuito prima degli altri “Chiddu è ‘n pezzu d’aricchiuni…” Ma nessuno di noi aveva voluto dargli retta. “Pensa ppi tia”, gli avevamo risposto. Il tono della voce, effettivamente, la cadenza un po’ frocia l’aveva; e poi, a pensarci bene, quando noi ci appartavamo per i nostri amori solitari, lui aveva sempre una scusa per non unirsi alla compagnia. Nei paesi le notizie volano. Da ufficialmente puppo restò in paese pochissimi anni ancora, poi si trasferì in un paesino del norditalia. I suoi per un periodo non si videro più in giro. In quei pochi anni che rimase con noi, però, era diventato il mio chiodo fisso. Lo osservavo in tutti i suoi atteggiamenti, pubblici e privati. La diversità è soprattutto unicità. E poi cantava con una voce straordinaria e questo me lo rendeva irresistibile. Ce ne andavamo in giro per le case diroccate della periferia portandoci dietro una chitarra e gli sguardi schifati della gente. Un pomeriggio d’autunno, seduti a terra, fianco a fianco, cominciò a singhiozzare lentamente; cantava e piangeva. Poi poggiò la testa sulle mie gambe e ruppe in un pianto a dirotto, irrefrenabile, inconsolabile. “Leo, ma chi minkja fai?? Ma chi c’è???” Niente riusciva a fermarlo; ogni tanto biascicava “Ma perché?? Ma perché???” Solo dopo un po’ riuscì a calmarsi, e ritornammo a ridere come due scemi. Appena un paio di settimane dopo partì e non l’ho più rivisto. Colpa mia, ovviamente; se avessi voluto, più di una volta ho saputo, per vie traverse, la città e i posti dove cercarlo e trovarlo. Non credo che lui torni, è più verosimile che un giorno vada a io cercarlo. Con me non ci aveva mai provato, Leo, e anche di questo gli sarò sempre grato; per avermi risparmiato quel seppur momentaneo imbarazzo, dagli esiti peraltro assolutamente incerti.
Da allora mi sono sempre disinteressato e un po’ impaurito del mondo degli uguali. La diversità è una disposizione dell’anima, un’inclinazione, una vocazione, una salvezza, a volte.
Comincio a vedere le cose già in un'altra maniera. E la fatica delle canne mi appare già più sopportabile, ora; cosa vuoi che ne capiscano tutti gli uguali di un pomodoro fatto in casa; del piacere di vederselo crescere un giorno dopo l’altro, lentamente. Mi ritrovo nell’orto ringalluzzito e felice del lavoro da fare. In un batter d’occhio ho impalato più di cento piantine. Che vadano pure tutti…..al mercato. Grazie Leo




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Rivista LE FATE

Sono stato coinvolto in questa avventura editoriale da Alina Catrinoiu, una ragazza rumena che ha scelto la Sicilia come sua patria d’elezione. Mi ha convinto dell’esigenza di mettere per iscritto e in buona grafia i nostri pensieri, i sogni, le visioni. Noi che, insieme a tanti altri, abbiamo deciso per la nostra Isola, non l’amore incondizionato, irrazionale, fanatico, nostalgico-folk, ma il rispetto per la memoria, il territorio, la cultura e le persone. Abbiamo messo insieme una squadra di donne e uomini (molte di più le donne, per la verità…qui c’è una quota azzurra che andrebbe sostenuta…), organizzati per macro-aree, la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, la fotografia, la cultura d’impresa…e abbiamo dato forma grafica ai nostri desideri, alle nostre parole. Ho scelto il nome de Le Fate perché sono caratterialmente attratto dal mondo invisibile e dai suoi significati, e perché sono alla ricerca di quel mondo che a volte vedo distintamente. A volte appena sopra l’orizzonte, a volte sotto i nostri piedi. In ogni paese del mondo c’è un regno delle Fate, fra le pareti delle antiche caverne dimora di monaci bizantini…. o sulle ali delle farfalle che planano sulle zagare degli aranci in primavera; tra i labirinti di luce di un antica masseria con le finestre ferite dal vento o sulle lingue di fuoco che ardono nei rosari delle donne in preghiera. Nelle rime di una filastrocca urlata dai carusi per la strada, o nei sospiri di una ninna-nanna a una picciridda ccu l’occhi sbarati tanti che non vuole dormire Oggi le abbiamo dimenticate, ma non per questo Le Fate non esistono. Soltanto i sogni, talvolta, ne danno testimonianza. Nello stato di semi-coscienza tornano a popolare i nostri pensieri, ci consolano, leniscono le ferite del giorno con le loro carezze. Ma riappaiono anche ad occhi aperti, quando la fervida speranza nella nostra memoria le svela da un arcaico silenzio; e allora ecco che languide melodie si librano, se le sai ascoltare, intonate dal sospiro del loro volto pallido. Non aver paura, non aggrottare le tue ciglia, non porti inutili domande; accoglile senza remore. Loro sono delicate e molto discrete, potrebbero fuggire per non tornare mai più.

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